"In narrativa il vero tabù non è il sesso ma il lavoro". Nel suo nuovo libro lo scrittore Francesco Dezio descrive "La gente per bene"
“(…) Dalla tua hai pure un grossissimo vantaggio: non sei
un tengofamiglia. Scommetto che quando ti sei presentato al tuo capo ha
voluto sapere a chi appartieni.
Beh, sì, ma che c’entra? E perché qui ci si conosce un
po’ tutti.
Francesco, ma tu allora sei fuori di testa! Il tuo stato
di famiglia gli serve a capire che entità di sacrificio ti può imporre. Cosi
ragiona l’imprenditore: dopo che gli ho fatto il test per sondare il livello di
ricattabilità e posseggo le notizie chiave, gli posso urlare nelle ’recchie:
Ah, i tuoi sono povera gente, bene, ah, stai sposato, a posto, ah, c’hai pure
il figlio, meglio ancora! Me ne posso approfittare. Se sa che ha a che fare con
uno spirito libero potrà toglierti la pelle, diciamo, a meta del corpo, se sa
che sei un tengofamiglia te la può levare tutta. Dopo che ti hanno
inquadrato per loro inizia il divertimento, possono giocare al gatto col topo,
sadicamente ti fanno le proposte, per vedere fino a che punto ti metti a
novanta”.
Dipendenti ricattabili e ricattati, padroni e “capi”
senza un briciolo di moralità, votati solo al proprio benessere e a quello
dell’azienda. Lo racconta con il suo stile pungente Francesco Dezio in
un’autofiction impietosa, La gente per
bene (TerraRossa edizioni). Non ha peli sulla lingua, Dezio, nel descrivere
situazioni che sembrerebbero di un secolo fa e, invece, sono realtà – una
realtà davvero molto triste e avvilente – dei giorni nostri.
La gente per bene è al Sud, in particolare è nell’hinterland barese –
Dezio è altamurano – che trova terreno fertile per le proprie coercizioni ma ciò
che è descritto potrebbe accadere ovunque, in Italia: richieste sempre più
oscene – eticamente parlando – fatte ai dipendenti, totale assenza di tutele e
prospettive, mancanza di solidarietà tra colleghi. Sì, perché il posto di
lavoro è un campo minato dove, pur di salvaguardare se stessi si penalizza il
collega. Homo homini lupus, una giungla nella quale è la legge del più forte –
il più scorretto – che predomina. Dezio tutto ciò lo ha vissuto sulla propria
pelle e ne ha fatto materia da romanzo. Con uno stile diretto e spiazzante – a
volte ironico - che nasconde un forte
desiderio di riscatto: per se stesso e per chi, come lui, ha dovuto subire
angherie inaccettabili pur di lavorare.
La voce di Dezio si conferma autentica e spietata, brillante
e verace: La gente per bene ritrae un
mondo del lavoro deprimente e, purtroppo, terribilmente attuale.
Sono passati più di dieci anni
dall’esperienza raccontata in Nicola
Rubino (recentemente pubblicato in una nuova edizione da Terrarossa) eppure
non è cambiato nulla, da quanto scrive in La
gente per bene. Il destino della classe operaia è quello di continuare a
soccombere e il futuro dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro
rimarrà pieno di ombre, secondo lei?
“Il
futuro dei giovani, come pure dei meno giovani, lo vedo nerissimo, altro che
ombre. Siamo di fronte ad un disastro di immani proporzioni, con milioni di
disoccupati, imprese che assumono giusto per qualche giorno, il lavoro a tempo
indeterminato che è diventato sempre più una chimera, l’articolo 18 che è stato
abolito (precarizzando all’ultimo stadio il lavoro, averlo o non averlo quasi
non fa più differenza), la legge Fornero, il Jobs Act, l’alternanza-scuola
lavoro e altre ignobili riforme sempre a vantaggio dell’imprenditoria e mai del
lavoratore. Diritti che neppure un Berlusconi avrebbe osato demolire così
radicalmente, varate proprio da governi che si dicevano di sinistra. I dati?
Tre milioni di disoccupati ufficiali e altri che invece lavorano ma, pensa che
ossimoro, non guadagnano. Questa crisi economica va avanti da dieci anni e la
crisi sociale è ancora più grave. Di contro, dalle televisioni e giornali – a
tutt’oggi - continuano a ripeterci che c’è una ripresa dello zero e qualcosa,
che l’occupazione sta aumentando dello zero e qualcosa, continuando
imperterriti a prenderci in giro”.
Lei ha precisato che “La gente
per bene” rappresenta “una trasposizione narrativa di eventuali realtà
esistenti”. Eppure si sente molta autenticità e si riconoscono spiacevoli
consuetudini del mondo del lavoro. Denunciare, anche se in forma romanzata e
con il sorriso sulle labbra, può servire a qualcosa?
“Del malessere, ben presente a Sud – scritto da chi
sta a sud - nella narrativa mainstream non v’è traccia. Su tutto prevalgono
storie omologate di commissari, sfumature di qualsivoglia colore, amorazzi tra
coppie borghesi che vivono, chiaramente, in posti fighi. La Grande Editoria
(che è a Nord e un pochino al centro) il Sud, questo Sud, lo riduce a una
camorriade. In narrativa il vero tabù non è il sesso ma il lavoro. Non so dirti
se con un romanzo di denuncia sociale (o letteratura contestataria) si possa
cambiare lo stato di cose, per saperlo dovrei godere di promozione spintissima,
passaggi in tv, distribuzione capillare e vendere migliaia, milioni di copie
quanto un Fabio Volo, il che certamente risolverebbe i miei problemi economici ma
anche così mi viene il dubbio che ugualmente non inciderebbe nel tessuto
sociale, nel senso che in questa finta democrazia il popolo ha le armi
spuntate, né prova a marciare unito, in massa (e mi torna alla mente il mitico
Quarto Stato di Pellizza da Volpedo) per fare il culo ai potenti o anche solo
fermare le macchine fino a che non si ridiscute tutto quanto”.
Lei
ha descritto fedelmente quello che accade nelle realtà aziendali
locali, i soprusi continui nei confronti di lavoratori costretti ad accettare
regole non scritte – ad esempio straordinari non retribuiti, orari massacranti,
stipendi irrisori, assenza di strumenti idonei - pur di conservare il posto. Ha
mai avuto paura di ritorsioni da parte di suoi ex “capi”?
“La forza di questo libro è quella di dire “Guardate
che c’ho provato con tutte le mie forze a inserirmi ma che non è scritto da
nessuna parte che la mia vita in toto
dev’essere regolata (o disciplinata) dal vostro Grande Progetto (sempre nel
caso in cui il lavoro ci fosse…) e che il vostro Sogno Americano applicato alla
Zona Industriale di Bari fa acqua da tutte le parti e scusate se con la mia
ironia vi faccio notare (anche se lo sapete benissimo) che il gioco è truccato
(a favore vostro)”. Ritorsioni? E di che tipo? Vengono a menarmi? A licenziarmi
ci sono riusciti benissimo, anzi, in questo caso faccio valere la citazione di
Kurt Cobain che ho scritto in esergo alla pubblicazione, You cant’ fire me because I quit – Non puoi licenziarmi perché mi
sono già arreso”.
L’uso di frasi in dialetto
stempera il clima piuttosto pesante che si respira nelle fabbriche: possiamo
considerarlo un omaggio alla sua Altamura e alla Puglia in genere?
“Tornando
alla letteratura, sì, scriverlo utilizzando delle punte di gergale e creando
una commistione tra dialetto e italiano è indubbiamente un omaggio, forse
l’unico, che potevo tributare alla mia città e, a più ampio spettro, alla
Puglia.
Utilizzare
la lingua dei vinti non è la ratifica di un’ennesima sconfitta ma è dare voce a
chi tenta di resistere e di ribellarsi”. Francesco Dezio
Francesco Dezio è nato ad Altamura nel 1970 e ha esordito nel 1998 con un
racconto nell’antologia Sporco al sole. Racconti del sud estremo (Besa).
Nel 2004 ha pubblicato con Feltrinelli il romanzo Nicola Rubino è entrato
in fabbrica, opera che inaugura una nuova stagione della cosiddetta
letteratura industriale e ora riproposta da TerraRossa Edizioni. Del 2014 è la
sua prima raccolta di racconti, Qualcuno è uscito vivo dagli anni Ottanta (Stilo),
diversi dei quali già apparsi su quotidiani e riviste. Nel 2008 è stato ospite
di cinque puntate della trasmissione Fahrenheit su Rai Radio 3. Ha collaborato
con «l’Unità», «la Repubblica-Bari», «Corriere del Mezzogiorno».
Rossella Montemurro