E' intenso e struggente "Il treno dei bambini" di Viola Ardone
“Mia mamma Antonietta
resta in un angolo della stazione che diventa sempre più lontano, con le
braccia incrociate sopra al mio cappotto. Come se mi tenesse stretto sotto ai
bombardamenti”.
Amerigo ha appena otto
anni e la madre lo sta lasciando andare sul “treno della felicità”, insieme a
migliaia di altri bambini, unn treno che lo porterà a trascorrere alcuni mesi con una
famiglia del Nord. In questo modo Amerigo avrà tutto quello che a Napoli, nel
1946, sua madre che lo sta crescendo sola – e che “di carezze non ne ha mai
avute e perciò non e tiene da dare”, gli sta facendo anche da padre, il papà è
emigrato in America in cerca di fortuna - non potrebbe offrirgli. Il piccolo avrà
l’alternativa a giornate passate a raccogliere stracci, avrà – lo hanno
assicurato ad Antonietta le donne del Partito Comunista – un futuro dignitoso:
“(…) Non ve ne andate. Non gliela togliete questa possibilità ai figli vostri.
Pensate che l’inverno sta arrivando. Il freddo, il tracoma, le case umide… – Si
avvicinano a ogni bambino e regalano una tavoletta di carta stagnola. – Siamo
mamme pure noi. I figli vostri passeranno l’inverno al caldo, mangeranno,
saranno curati. Già le famiglie di Bologna, di Modena e di Rimini li aspettano
per accoglierli nelle case loro. Vi torneranno più belli, più sani, ingrassati.
Mangeranno tutti i giorni. Colazione, pranzo e cena”.
Il
treno dei bambini (Einaudi) di Viola Ardone è un romanzo
intenso e struggente che ha preso spunto da una vicenda, probabilmente poco
conosciuta, dell’immediato dopoguerra. È una separazione, terribile ma
necessaria che, paradossalmente, si rivelerà più dolce del momento in cui
Antonietta e Amerigo si riabbracceranno.
Dopo mesi trascorsi a Modena
con Derna, che quando è fuori per lavoro lo lascia a casa di sua cugina Rosa - moglie
di Alcide e mamma di Rivo, Luzio e Nario - il rientro ha un retrogusto amaro, è
una specie di involuzione che sulle prime porta Amerigo quasi a denigrare quel
periodo spensierato: “Che ci azzecco più io con loro? I pianoforti, il violino,
la stalla, la befana partigiana, la pasta fresca con la farina e le uova, il direttore
Lenin, i segnali dalla finestra, il maestro Ferrari, la penna rossa e la penna
blu, il cappotto, la spilla rossa sopra al cappotto, le lettere nello spazio
piccolo e quelle nello spazio grande tra le righe del quaderno”.
Per Amerigo, Modena ha
voluto dire una quotidianità su misura di bambino e non quella di espedienti
che viveva a Napoli, mangiare tre volte al giorno e non una sola – quando andava
bene -, gesti di affetto a fronte di mazzate, ha significato andare a scuola, suonare
il volino, indossare scarpe del numero gusto, né troppo strette né troppo
larghe… Ecco perché il rientro a Napoli stride con ciò che ha vissuto tanto da
sperare che quello sia soltanto un sogno e che la realtà, invece, sia l’Emilia
Romagna.
Il
treno dei bambini affronta con delicatezza il legame
madre-figlio, una madre biologica inflessibile, troppo impegnata a sopravvivere
e a proteggere a modo suo l’unico figlio (“Tu non avevi paura di niente.
Camminavi sempre a testa alta. La paura non esiste, mi dicevi, è solo una
fantasia. Me lo sono ripetuto anch’io, non me ne sono mai convinto”) e una
madre adottiva in grado di avvolgere un bambino con tutte le attenzioni
possibili.
Viola Ardone ha
raccontato una storia difficilissima, che trasuda emozioni, con le parole più
adatte, usando un linguaggio vivace e colorito nelle prime due delle quattro
parti in cui è diviso il romanzo, fino a diventare più asciutto e nostalgico
nella terza e a lasciarsi andare a un’incredibile intimismo nell’ultima, quando
la voce di Amerigo non ci lascerà scampo.
Presentato come il caso
editoriale della scorsa fiera di Francoforte, tradotto in 24 Paesi (destinati
ad aumentare), Il treno dei bambini è
uno di quelle letture che rimangono addosso a lungo.
L’autrice, nata a Napoli nel
1974, insegna latino e italiano al liceo. Ha pubblicato per Salani Una rivoluzione sentimentale.
Rossella
Montemurro